Tutto dunque può essere mito? Sì, a mio avviso, perchè l'universo è infinitamente suggestivo. Ogni oggetto del mondo può passare da un'esistenza chiusa, muta, ad uno stato orale, aperto all'approvazione della società, perchè non c'è alcuna legge, naturale o no, a impedire che si parli delle cose.
Siamo esposti al momento della nostra nascita al freddo dell'assenza di senso. Forse la prima cosa che accoglie il bambino quando nasce è la voce, la voce che è lì per tentare di consolarlo. All'inizio quella voce articola soltanto suoni quasi sgangherati, però amorevoli, e poi lentamente le prime parole rassicuranti che poi diventano parole ammonitrici, che in qualche modo devono indicarci la via. Col passare del tempo quella voce si fa voce narrante che ci racconta favole e miti, grazie a cui si apre a noi il mondo nella forma di un "cosmos", cioè nella forma di un ordine, di un senso. [...] Quella voce calda è per noi la radice di ogni senso, quella voce che narra è il veicolo del sostrato profondo, di ogni nostra futura interpretazione, di ogni nostra futura narrazione. E' così che nasce una visione culturale del mondo. Attraverso quelle prime favole, quei primi miti che ci rivestono, che ci accolgono nasce in noi un vero e proprio vestito che ci serve per uscire, per uscire nel mondo. Un alfabeto geroglifico, pittografico, pieno di simboli con cui interrompiamo il bianco silenzio della parete, quel silenzio di una parete bianca, l'insignificanza, l'indifferenza del mondo, indifferenza nel senso di assenza di differenze dove non ci sarebbe di per sè una differenza tra bene e male, tra alto e basso, tra est ed ovest se non fosse per il racconto che ci ha indicato una mappa per orientarci.
Una leggenda diffusa nell’antichità e nel Medioevo e particolarmente rilevante per il Portogallo sostiene che, prima di scomparire nell’Atlantico, Ulisse abbia fondato Lisbona («Ulixabona»). Pessoa scrive: «Questi, che qui approdò, / fu per il non essere esistente. / Senza esistere ci bastò. / Per non essere venuto venne / e ci creò». Il discorso è paradossale e inclina alla metafisica, ma risulta chiaro nelle sue implicazioni: Ulisse è un personaggio mitico, dunque non è mai esistito nella realtà. È esistito, invece, come mito, sul piano del non essere. Tuttavia, il mito è sufficiente a dar forma al reale e soprattutto, nei miti di fondazione, a un’identità. Senza mai giungere in Portogallo, Ulisse ha “creato” i portoghesi, ha dato il suo volto a un popolo. «Così», conclude il poeta, «la leggenda si dipana / entrando nella realtà, / e a fecondarla decorre. / In basso la vita, metà / di nulla, muore».
Come mito vero e proprio, vale a dire non semplicemente celato nell'inconscio, esso non è altro che esperienza originaria rivelatasi, grazie alla quale è possibile anche il pensare razionale. Per questo il mito non è svanito completamente neppure per noi. Resta però del tutto inconscio, non emerge rivelandosi, è come se non fosse affatto. Le popolazioni primitive si distinguono da noi perchè il mito si rivela loro con tutta la sua verità originaria, ed esse ne attingono completamente la loro esistenza. Per questo non sono abili e accorte come noi, che abbiamo respinto il mito nell'inconscio con il pensiero razionale.
Crediamo di poterci congratulare con noi stessi per aver già raggiunto una tale vetta di chiarezza, convinti come siamo di esserci lasciati alle spalle tutte queste divinità fantasmatiche. Ma quelli che ci siamo lasciati alle spalle sono solo spettri verbali, e non i fatti psichici che furono responsabili della nascita degli dèi. Noi continuiamo a essere posseduti da contenuti psichici autonomi come se essi fossero davvero dèi dell'Olimpo. Solo che oggi si chiamano fobìe, ossessioni, e così via. Insomma, sintomi nevrotici. Gli dèi sono diventati malattie.
Il linguaggio, nelle sue componenti originarie, è dunque assolutamente mitico, e testimonia la verità delle parole attribuite al filosofo Talete: 'tutto è pieno di dèi'. Linguaggio e mito non vanno allora separati. [...] L'importanza di ciò per il fenomeno della lingua nella sua totalità è facilmente intuibile. Un aspetto in particolare: i Greci, che erano ben lontani dal ritenere il poeta o il cantore un creatore – mentre noi vi siamo abituati da due secoli e mezzo -, sapevano che è la Musa a cantare e a parlare, e che il poeta è invece colui che ascolta e che rende in suoni, con la propria voce, quanto il suo orecchio interiore ha percepito. E' quanto dimostrano già i versi iniziali dell'Iliade e dell'Odissea. Questo vale poi per il linguaggio stesso, che non scaturisce da nessun Io, o dal suo bisogno di esprimersi, ma dal ritmo divino di ogni cosa nel suo farsi incontro all'essere superiore dell'uomo, affine al divino. Se esso è originariamente un rivolgersi, allora non è un rivolgersi ad un altro uomo, ma un dialogo del superiore essere dell'uomo con il divino del mondo.
Otto intuisce che la finalità del linguaggio non è la comunicazione (p.42):
Nella sua originalità e purezza, il linguaggio non è affatto un 'mezzo' per comunicare qualcosa. Esso stesso è la verità del mito. Più esattamente: esso non è altro che la forma rivelata in parola della verità (mitica) (esso non interpreta il mito, né tenta di esprimerlo, ma è il mito).
In questa frase di Otto c'è un'intuizione che verrà confermata più tardi da studi antropologici, linguistici e neuroscientifici, vale a dire l'intuizione che lo scopo del linguaggio non è quello di comunicare qualcosa, quanto quello di abilitare un pensiero simbolico utile alla sopravvivenza. Non tutto ciò che è arrivato fino a noi dal passato è mito: anche i popoli primitivi distinguevano tra i loro miti e le loro narrazioni. La differenza, secondo Walter F. Otto, è che ogni 'mito originario' è una potenza che si manifesta nei comportamenti umani, in passato in modo consapevole, oggi soprattutto inconscio. Il mito precede il culto, inteso come risposta fisica al mito. Come scrive Walter F. Otto (p.38):
Non soltanto il culto è impensabile senza il mito, ma il mito genuino non è mai senza culto, 'azione': è nella sua essenza pretendere il culto. Con culto intendo in senso ampio (e profondo) lo specifico comportamento fisico e spirituale con cui l'uomo risponde immediatamente al mito. Oppure, ancora meglio: lo specifico comportamento dell'uomo in cui il mito, nell'uomo stesso, diviene forma. E' una scala che va dal semplice congiungere le mani fino alla ripetizione ed alla rappresentazione drammatica dell'evento originario che si è annunciato nel mito. Dico appositamente 'ripetizione' e non imitazione poiché le azioni cultuali più o meno drammatiche non sono affatto una libera imitazione, un richiamare alla memoria, ma sono sempre l'evento originario stesso. Da qui la ferma convinzione che ne derivassero le medesime salvifiche conseguenze proprie anche dell'evento mitico della preistoria.
Medea è l'eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso. Giasone è invece l'eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi. E' una mia vecchia polemica: il centro della civiltà piccolo-borghese è la ragione, mentre tutto ciò che è irrazionale, per esempio l'arte, contesta la ragione borghese. Il potere, infatti si fonda sulla ragione.
Lo psicoanalista Elvio Fachinelli, nel suo libro 'La freccia ferma', chiarisce l'origine dei rapporti tra mito e rito (culto) e l'importanza di questi per la sopravvivenza del gruppo (tribù, famiglia, ecc.). Le principali relazioni tra mito e rito, tratte dal libro citato, sono riportate nella mappa concettuale sottoriportata. Fachinelli riporta inoltre un illuminante esempio (tratto da 'Tristi Tropici' di C.Lévi Strauss - p.280), riguardante l'importanza attribuita dall' 'uomo arcaico' al capo del gruppo, che ci fa comprendere come mai anche 'l'uomo moderno', spesso, indulge in comportamenti di passività e sottomissione (pp.74-75):
Un gruppo che è colpito globalmente, 'nella sua sostanza', 'nel principio stesso della sua vita', quando muore un suo membro importante, e quindi tanto più gravemente quanto più importante è la persona morta, è indubbiamente un gruppo che dipende profondamente da questa persona. Si tratti del capo o re di tutta la tribù, di un membro del consiglio degli anziani, oppure più semplicemente del padre di famiglia, questa situazione implica il riferirsi a lui, da parte del gruppo dipendente, non soltanto come un termine fisso di autorità, potere, prestigio, ma anche come a un 'garante diretto della propria precaria sopravvivenza'. Ecco un esempio particolarmente incisivo. 'Verso sera bisognò fermarsi nella boscaglia; ci avevano detto che avremmo trovato della selvaggina, perciò gli indigeni contavano sulle nostre carabine e non avevano portato niente; e noi possedevamo soltanto le provviste d'emergenza che era impossibile dividere fra tutti. Un branco di cerbiatti che passava presso una sorgente fuggì al nostro avvicinarsi. L'indomani mattina regnava un malcontento generale, diretto ostensibilmente verso il capo, ritenuto responsabile di un affare combinato fra lui e me. Invece di organizzare una spedizione di caccia o di raccolta, tutti decisero di coricarsi all'ombra dei ripari, lasciando che il capo cercasse da solo la soluzione del problema. Egli sparì accompagnato da una delle sue donne; verso sera furono visti tornare tutti e due con la pesante gerla piena di cavallette che avevano raccolto durante l'intera giornata. Benchè il pasticcio di cavallette non sia un piatto molto apprezzato, tutti mangiarono con appetito e ritrovarono il buonumore.' Sicchè il narratore può concludere: 'A parte uno o due uomini senza reale autorità, ma pronti a collaborare dietro ricompensa, la passività della banda [Nambikwara] fa un singolare contrasto col dinamismo del suo capo. Si direbbe che essa, avendogli ceduto certi vantaggi, si aspetti da lui la cura totale dei suoi interessi e della sua sicurezza.'
Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell'infanzia: è fuori del tempo. Un uomo apparso un giorno, chi sa quando, sulle tue colline, che avesse chiesto dei salici e intrecciato un cavagno e poi fosse sparito, sarebbe il più genuino e più semplice eroe incivilitore. Mitica sarebbe questa rivelazione di un'arte, quando quel gesto fosse, beninteso, di un'unicità assoluta, non avesse presente e non avesse passato, ma assurgesse a una sacrale eternità che fosse paradigma a ogni intrecciatore di salici. E un'aia tra tutte, dov'egli si fosse seduto, sarebbe santuario […] L'aia del mio eroe dev'essere tutte le aie: e su ognuna di esse il credente assiste al ricelebrarsi della rivelazione.
Il mito è un fenomeno che si è verificato su scala globale nell'antichità, un linguaggio simbolico attraverso cui l'uomo crea una struttura interpretativa e un ordine al mondo dal punto di vista cosmologico, sociale, nonchè politico e materiale. Per cui è importante un approccio storico al fenomeno del mito, per collocarlo in un contesto storico-culturale di una certa fase della storia dell'umanità e per capire che ogni utilizzo contemporaneo del termine 'mito' non ha - e non può avere - lo stesso significato originario.
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Daniela Sacco (2010), Presentazione di C. G. Jung, Il Libro rosso, Bollati Boringhieri Editore
- Walter Friedrich Otto (1993), Il Mito - Il Melangolo editore
- Elvio Fachinelli (1992), La freccia ferma - Tre tentativi di annullare il tempo - Adelphi Editore
Cesare Pavese, Feria d'agosto - Il mestiere di vivere - Dialoghi con Leucò - Einaudi (Grandi libri sull'essenza del mito nella poetica pavesiana)
Marino Niola (2012), Alla ricerca del mito l'occhio contemporaneo tra le rovine del passato - La Repubblica
- Stefania Berutti (2013), Sulle mitologie malate di questo paese
- Massimo Fusillo (2012), La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema
Pagina aggiornata il 5 luglio 2023